Il menhir di San Paolo a Giurdignano
Giurdignano è uno di quei luoghi dove i ritmi e il senso della vita sono, ancora, quelli di un tempo. Siamo in Salento, a cinque chilometri da Capo d’Otranto, il punto geografico più a oriente d’Italia. Meno di duemila abitanti, molto più di duemila anni di storia. Sterrati e un dolce nastro d’asfalto si dipanano tra muretti a secco e ulivi secolari, mentre la fragranza della macchia spontanea ti avvolge improvvisa, alternandosi al caratteristico profumo della lavorazione delle olive. Siamo al centro del giardino megalitico d’Italia, con la sua concentrazione di menhir e dolmen.
Non è chiaro quale fosse la funzione primigenia dei menhir: sorti tra l’età del bronzo e quella del ferro, sono prismi monolitici con base quadrangolare e altezza compresa tra due e oltre quattro metri, orientati generalmente lungo l’asse est-ovest. Tra le funzioni ipotizzate, vi sono la segnalazione di confini territoriali e incroci viari, quella di steli sepolcrali, anche se l’ipotesi più diffusa vi attribuisce funzioni rituali identificandoli come simulacri dedicati al culto del sole.
Dovessi sceglierne uno come boa di partenza per questa navigazione in terra di mare, sceglierei il menhir di San Paolo, sintesi del sincretismo culturale e religioso di queste terre: alto poco più di due metri, posto su un banco roccioso, probabilmente in epoca bizantina vi è stata ricavata alla base una minuscola cripta, che poteva anche fungere da riparo per i viandanti in cammino, dedicata a San Paolo. È ancora ben visibile, all’interno, l’affresco che raffigura il santo, mentre altre figure sono state cancellate dal tempo e dalle intemperie.
San Paolo con la ragnatela e il ragno
Alla sinistra di San Paolo una ragnatela e un ragno, probabilmente di realizzazione successiva, ci ricordano la sua funzione di protettore e taumaturgo delle tarantate. Il culto di San Paolo - secondo la tradizione guarito dal veleno iniettatogli da un serpente sull’isola di Malta - abbozzato già in epoca bizantina, divenne molto forte e sentito nei secoli successivi, quando la chiesa cercò di debellare, o almeno di limitare, il fenomeno del tarantismo, di matrice tipicamente pagana.
Il menhir Vicinanze 1
A poche centinaia di metri da San Paolo troviamo il menhir Vicinanze 1, altro esempio estremamente leggibile di conversione da rito pagano a rito cristiano: sin dall’editto di Tessalonica, la Chiesa cercò di perseguire l’abbandono dei rituali pagani: visti i risultati più che deludenti, i menhir vennero progressivamente cristianizzati attraverso incisione di croci o utilizzandoli come basi per crocifissi o altri simboli della nuova religione.
Il menhir Vicinanze 1
Trasformati in Osanna, o Sannà in Grico (la lingua che nel periodo di dominazione bizantina si parlava in tutta la Terra d’Otranto) i menhir furono presto adottati dalla comunità cristiana e ancor oggi, la domenica delle Palme, in alcuni paesi sono meta di processioni e luoghi di benedizione per i rami d’ulivo.
Il menhir Vicinanze 2
Pochi centinaia di metri separano i menhir Vicinanze 1 e Vicinanze 2, e il mezzo più adatto per percorrerli è, forse, la bicicletta, tra campagne nelle quali davvero poche volte verrete affiancati da un’automobile. Alto tre metri, ben segnalato sul Percorso Megalitico di Giurdignano, si erge su uno sperone roccioso a margine di un crocicchio, ed è stato ricollocato nella sua posizione originaria nel 1953. I due menhir Vicinanze delimitavano, con ogni probabilità, un insediamento medievale, forse di origine bizantina, comprovato dai ritrovamenti di tombe e resti di chiesette rupestri.
Dolmen Stabile
Una piccola deviazione nel comune di Giuggianello ci porta al dolmen Stabile, conosciuto anche come Quattromacine, dal nome del casale medievale che sorgeva un tempo in zona. Così come per i menhir, nemmeno per i dolmen abbiamo certezze sulle funzioni primitive; i dolmen salentini, alti generalmente meno di un metro, presentano quasi sempre apertura a oriente e sono costituiti da ortostrati monolitici o di pietre impilate a sorreggere una o più lastre di copertura. Una delle ipotesi, oggi la più accreditata, li vedrebbe come luoghi di sepoltura, generalmente a camera singola, un tempo coperti da terra e pietre fino a formare una specchia, ovviamente scomparsa per gli agenti atmosferici e lo scorrere del tempo.
Dolmen Stabile
La seconda ipotesi vedrebbe i dolmen come altari rituali e sacrificali: a guardare il dolmen Stabile, la teoria potrebbe anche non essere priva di fondamento: sul lastrone orizzontale di copertura sono incisi dei solchi, convergenti in due cavità di raccolta ricavate alla base degli ortostrati verticali. Se davvero fu utilizzato per scopi rituali, le cavità andrebbero interpretate come canalette di raccolta e deflusso del sangue sacrificale.
Il menhir Madonna di Costantinopoli
Madonna di Costantinopoli… con il suo nome evocativo, questo menhir ci riporta alla periferia di Giurdignano, vicino all’omonima chiesetta. In pietra leccese, orientato sull’asse est-ovest e curiosamente inclinato verso la statua della madonna, sembra quasi voler trovare la prospettiva migliore per guardare a quell’Oriente qui così vicino.
Il menhir San Vincenzo
Il menhir San Vincenzo, in centro a Giurdignano, a pochi passi dalla cripta di San Salvatore, con i suoi tre metri e mezzo è tra i più alti della zona. Leggermente rastremato, consolidato alla sommità da una fasciatura in ferro, poggia su un banco roccioso e fa da silente guardiano a una tranquilla piazzetta che potrebbe essere il posto ideale per un pasticciotto, un rustico o un calzone, a seconda dei gusti: un veloce e appagante street foodsu una delle panchine che gli tengono compagnia…
Il menhir della Madonna del Rosario
Difficilmente riconoscibile come menhir, trasformato in colonna, abbattuto, spostato di sede almeno due volte, spezzato in tre tronconi, oggetto di restauri grossolani, mancante di un significativo segmento alla sommità… A leggerne la scheda, sembrerebbe un bollettino di guerra, o un referto autoptico.
Eppure, capitare davanti al menhir della Madonna del Rosario passeggiando, mentre un gruppo di ragazzini gioca a calcio e ride sul piazzale, guardarlo accostato al muro della chiesa, cromaticamente integrato tra strette finestre e un pavimento a scacchi, dà un’idea di serenità, con la consapevolezza del tempo che muta le cose, le trasforma, anche drasticamente e drammaticamente, ma, alla fine, tutto scorre e torna in equilibrio.
Il menhir della Fausa
Il menhir della Fausa, che prende il nome da una grotta che si trova nelle immediate vicinanze, poggia su uno sperone roccioso alto un paio di metri, e ne misura, a sua volta, più di tre. A differenza di altri, è orientato lungo l’asse nord-sud. Sono molti più di questi i menhir e i dolmen presenti sul territorio, alcuni dei quali ormai inglobati in giardini, abitazioni e corti private: una vera caccia al tesoro, un’affascinante avventura da portare avanti con ritmo lento e occhi attenti, magari chiedendo informazioni ai passanti e agli abitanti, in un continuo gioco di rimandi.
Il frantoio ipogeo
Una ripida scala di pietra porta al Trappitello del Duca, il frantoio ipogeo che tra il 1518 e il 1940, quando cessò l’attività, rappresentò, come tutti quelli del Salento, un vero e proprio pozzo di petrolio, fonte di grandi ricchezze, ma anche di fatiche quasi inumane. Da ottobre ad aprile, una ventina di operai e due asini vivevano ininterrottamente in questo ambiente interrato, alla sola luce delle fioche lucerne, con una temperatura costante di 12° e ritmi di lavoro durissimi, mangiando a turni di cinque per non interrompere mai il ciclo di produzione. Accadeva, a volte, che risalendo in superficie dopo sei, sette mesi, alcuni operai diventassero ciechi, non essendo più in grado di sopportare la luce del sole.
L’olio serviva non solo per la cucina, ma soprattutto come combustibile per l’illuminazione. E il Salento, come Emirati Arabi ante litteram, con le sue immense distese di ulivi e i frantoi ipogei, ne produceva in quantità tale da venire esportato e utilizzato per lubrificare le macchine della nascente rivoluzione industriale.
La cripta di S. Salvatore
La cripta di S. Salvatore, a due passi dal menhir San Vincenzo, rappresenta una delle maggiori espressioni dell’architettura bizantina in Salento. A lungo dimenticata, fu riscoperta solo in seguito al cedimento di una porzione del pavimento della soprastante chiesa di S. Vincenzo. Una volta scese le scale, accedervi oggi, attraverso l’ingresso originario, significa trovarsi proiettati in un’atmosfera e in un’epoca cariche di fede e misticismo. Ha una pianta a tre navate, divisa in nove campate da quattro pilastri cruciformi. Davanti a ciascuno dei tre absidi, un altare ricavato da un unico blocco di pietra.
La cripta di S. Salvatore
Gli affreschi meglio conservati sono quelli del bema, ovvero la zona riservata all’officiante. Tra questi, una Madonna con Bambino e due arcangeli, tre apostoli e alcune figure forse interpretabili come i committenti dell’opera. Ancora oggi colpisce l’estrema vivacità e brillantezza dei colori, impreziositi dalle maestranze dell’epoca con piccole pietruzze di madreperla. Ciò che però cattura lo sguardo e rende unica questa cripta è la possente volta dell’ipogeo, variamente scolpita: vi troviamo una scala, simbolo di purificazione e mezzo per raggiungere la salvezza, oltre a un motivo con crociere a vela, motivi a cassettoni e a croce greca.
[© Gianluca Baronchelli / National Geographic Italia – 2016]