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Val di Noto, la nascita del Barocco e i sapori di una terra

  • Immagine del redattore: gianluca baronchelli
    gianluca baronchelli
  • 23 apr
  • Tempo di lettura: 10 min


Noto, il tramonto sulla Cattedrale

 

C’è sempre una data, un evento, una cesura dalla quale partire per provare a capire una terra. Nel caso del Val di Noto la riga rossa dalla quale partire si dipana alle 13:30 dell’11 gennaio 1693. È l’ora della scossa principale del sisma che distrugge la Sicilia orientale, l’evento di più elevata magnitudo della storia italiana, secondo per numero di morti solo a quello dello Stretto di Messina del 1908. I freddi numeri parlano di 7,4 gradi di magnitudo, 45 centri abitati rasi al suolo, 60.000 morti. Ai governanti e ai pochi abitanti sopravvissuti resta una tabula rasa. È il foglio sul quale dal 1693 e per tutto il secolo successivo viene disegnato il Barocco del Val di Noto.

Noto, Scicli, Modica, Ragusa Ibla, Palazzolo Acreide insieme a Catania, Caltagirone e Militello rappresentano il cuore di una terra meravigliosa, un miracolo di rinascita e bellezza oggi Patrimonio Unesco. Per dirla con le parole di Guido Piovene è un barocco siculo, diverso da tutti, che si sposa al palmizio, assimila la pietra al pennacchio e al ciuffo, pregno di elementi arabi e di elementi bizantini, tutto fantasia e sangue, senza un momento di freddezza. Prima di lui, lo storico dell’arte André Chastel lo aveva definito come un vasto teatro dove rapide prospettive si formano grazie ai cornicioni nelle strade in salita. Un giardino di pietra, secondo Cesare Brandi, anche lui critico d’arte.

 



Noto, Palazzo Nicolaci Villadorata con il suo affaccio su San Carlo al Corso

 

Il barocco di Noto è tutto questo, e molto più. È fasto che sfiora l’insolenza nelle facciate dei palazzi e delle chiese, è utopia urbanistica, vertigine, bellezza, sfida e poesia. Ti stordisce, cattura lo sguardo e governa i tuoi piedi in una danza nuova facendoti avanzare, arretrare, girare in tondo su te stesso senza darti punti di riferimento univoci. Da Porta Reale, eretta nel 1838 in onore di Ferdinando II di Borbone, parte Corso Vittorio Emanuele, l’asse portante della città sul quale si aprono le tre principali piazze. Piazza dell’Immacolata è la prima che incontro, insieme alla chiesa di San Francesco, edificata tra il 1711 e il 1750, e al monastero benedettino del SS. Salvatore, progettato nella prima metà del Settecento da Vincenzo Sinatra, l’architetto che insieme a Rosario Gagliardi maggiormente ha contribuito alla rinascita di Noto (e di Ispica, con lo straordinario loggiato di Santa Maria Maggiore). Mi immagino André Chastel davanti alla chiesa di San Francesco, la sua definizione di barocco che ha suscitato una “civiltà delle scale” non può che aver preso forma definitiva qui, davanti a questa vertigine grigia che si infrange sull’ocra della facciata. Più avanti la chiesa di Santa Chiara, sulla sinistra, e poco oltre piazza del Municipio, incredibile summa di capolavori: la cattedrale, la facciata del monastero del SS. Salvatore, palazzo Ducezio, palazzo Landolina, il palazzo Vescovile e, poco più avanti, la chiesa di San Carlo al Corso con la sua facciata concava a tre livelli e colonne ornate da capitelli di ordine dorico, ionico e corinzio.

 

Piazza XVI Maggio chiude il trittico: la chiesa di San Domenico e il convento dei Domenicani dominano il lato nord e fronteggiano l’ottocentesco teatro comunale intitolato all’attrice Tina di Lorenzo, unica nota in dissonanza rispetto al barocco. Da qui, tre minuti bastano per raggiungere Palazzo Nicolaci Villadorata con la sua sequenza di balconi dalle inferriate in ferro ricurvo, sorretti da mensoloni in pietra scolpita con le sembianze di figure grottesche: sfingi, ippogrifi, sirene, cavalli alati, leoni e angeli si protendono sulla via facendo già intuire la sfarzosità dei 90 ambienti interni, articolati su quattro piani.

L’impressione generale, percorrendo strade e piazze, è davvero quella di un colossale teatro, di una scenografia ideata più per lo stupore che per la vita. Sembra quasi che il terremoto del 1693 abbia cancellato non solo l’architettura di Noto e del suo Vallo, ma anche la sua storia precedente.

 



Corrado Assenza, anima del Caffè Sicilia

 

Per riannodare il filo con questa terra, con la sua memoria, le sue tradizioni e i suoi sapori, non c’è persona migliore di Corrado Assenza, l’uomo che ha rivoluzionato il concetto di pasticceria in Italia, il pasticcere italiano più conosciuto nel mondo. Mi accoglie nel suo regno, il Caffè Sicilia, un’istituzione a Noto sin dal 1892. Corrado rappresenta la quarta generazione alla guida del caffè e della sua pasticceria, lo ha preso in mano nel 1985, dopo essersi laureato in agraria a Bologna, e oggi è supportato dal figlio Francesco, che per tornare in Sicilia ha lasciato la cucina delle Calandre e lo chef Massimiliano Alajmo. Ci sediamo ai tavoli affacciati su Corso Emanuele, gli prometto una chiacchierata breve, ma capisco subito che è una falsa promessa. Troppe le cose che ha da raccontare, troppo grande l’amore di Corrado per la sua terra. Con il suo grembiule bianco, un caffè e un bicchier d’acqua davanti a sé, conto trentadue “ciao Corrado” mentre il paese sfila davanti a noi, prima di darci appuntamento al giorno dopo per una passeggiata alla ricerca delle erbe per la sua pasticceria secca. «Il caffè Sicilia è la bottega rinascimentale del nuovo millennio, qui tutti i pasticceri sono stati allevati in casa, con il garzone che nel tempo diventa maestro di bottega». Corrado Assenza oggi racconta una visione, prima di tutto: la sua è una pasticceria individuale, singolare, aliena rispetto alla pasticceria tradizionale. «Parto dalla conoscenza degli uomini - i nostri fornitori sono contadini, allevatori, casari, produttori primari di materia - e della terra, dai frutti che diventano ingredienti, poi diventano dolci per diventare infine piatti. C’è continuità e rottura tra gli uomini così come nelle ricette: ciascuno di noi ha preso qualcosa dal maestro precedente per poi attualizzarlo nella ricerca del gusto contemporaneo.  È idealmente lo stesso segreto della cassata che, pur avendo mille anni, è sempre contemporanea, ma mai uguale a sé stessa. Perché allora ad esempio non c'era lo zucchero, si usava miele o un decotto di carrube, non c'era la possibilità di macinare finemente la mandorla per fare la pasta reale…» Gli chiedo qual è la creazione alla quale è più affezionato, anche se conosco già la risposta, che puntualmente arriva con un sorriso: la prossima. In attesa della prossima, io trovo imperdibile il suo biancomangiare, o la spettacolare versione per i mesi freddi che Corrado Assenza chiama zuppa di mandorle. E ancora, i biscotti di mandorla all’arancia e alle erbe, il trancio con pompelmo rosa e peperone oppure con zenzero, zafferano e zucca candita. Sulle granite, fate voi…

 



Marco Baglieri, chef stellato del ristorante Crocifisso

 

Un passo ulteriore nella scoperta culinaria e storica di questo angolo di Sicilia lo faccio con Marco Baglieri, chef e anima del ristorante Crocifisso. Anche Marco, come Corrado, è tornato a casa: dalla Germania, terra dove ha mosso i primi passi nella cucina di mamma, ricca di odori e suggestioni siciliane nonostante la distanza. Nel 1983 la famiglia torna in Italia, e l’avventura culinaria parte da una piccola osteria acquistata dal padre. Dapprima solo mescita di vino, poi qualche polpetta, i primi piatti della tradizione, e via via a crescere fino al locale attuale, in via Principe Umberto. Oggi la cucina di Marco Baglieri è un riferimento per tutta la Sicilia, l’impronta è profondamente stagionale, i piatti sono quelli della tradizione rivisti e sgrassati, alleggeriti senza per questo snaturarli. Tra tutti, lo spaghetto alla palermitana, con la quasi maniacale ricerca di qualità nell’ingrediente, dallo zafferano all’uvetta e ai pinoli, con il pan grattato lavorato quasi come un couscous, e in primavera l’uovo 68 con gli asparagi selvatici. Ancora, l’utilizzo del limone verdello, sul dolce così come sul salato, a chiudere alcuni piatti con uno dei profumi più ancestrali della Sicilia.

 



Scicli, via Mormino Penna con la chiesa di San Michele Arcangelo e Palazzo Bonelli - Patanè

 

Limoni, mandorli, timo, rosmarino, origano, finocchietto e ogni sorta di erba spontanea: il viaggio da Noto a Scicli diventa un involontario e piacevolissimo ripasso dei sapori e dei profumi evocati da Corrado e Marco, una geografia dai colori netti, pieni di vita. Scicli ti appare improvvisamente, dietro a un tornante, se hai la fortuna o l’abilità di scegliere la strada giusta per arrivarci. E capisci subito che, anche qui, sei cascato bene, anzi benissimo, in una scenografia teatrale meravigliosa. È un barocco raccolto eppure solenne, la dimensione è più da paese che da città. Elio Vittorini l’ha definita la più bella delle città di tutto il mondo, e via Mormino Penna rappresenta l’ingresso ideale al centro storico con i suoi 300 metri scarsi densi di palazzi nobiliari e chiese; tra tutte, il capolavoro di San Giovanni Evangelista. In fondo sulla sinistra, giungendo da ovest, una delle quinte più famose della Vigata di Camilleri, con il palazzo municipale trasformato nel commissariato di Salvo Montalbano dalla trasposizione televisiva dei romanzi. Una tappa all’Antico Caffè Gritti è fondamentale per almeno due validissimi motivi: la granita e la testa di turco, imponente dolce a forma di turbante ripieno di ricotta o crema pasticcera, che omaggia la Madonna delle Milizie e la  rappresentazione che si svolge l’ultimo sabato di maggio in onore della santa protettrice della città. Non priva di evidenti forzature storiche, la festa mette in scena un episodio del 1091, quando gli arabi guidati dall’emiro Ben Al Hakam avrebbero tentato, secondo questa versione, la riconquista della Sicilia venendo ricacciati dal cattolicissimo conte Ruggero con l’aiuto, appunto, della Vergine a cavallo, armata di tutto punto. E ogni anno, in piazza Italia, uno degli scenari barocchi più belli di tutta la Sicilia, dalla chiesa di Sant’Ignazio esce la statua della Madonna, col suo aspetto quasi da manga giapponese o da film di Tarantino, a spada sguainata e con due mori calpestati dagli zoccoli del cavallo. Non può mancare uno sguardo alle oniriche decorazioni settecentesche del vicino Palazzo Beneventano, ed è ora di proseguire il viaggio.

 



Modica dalla torre campanaria del Duomo di San Giorgio

 

Scicli e Modica distano non più di una ventina di minuti da percorrere tra muretti a secco e carrubi, pascoli e oliveti, strade dolci allo sguardo e secche di polvere. Modica, città strappata alla pietra, con San Giorgio e San Pietro che da più di tre secoli si spiano con simulata indifferenza mentre si contendono il primato di bellezza, col sagrestano dell’una che sornione mi dice dell’altra “sbrigati se vuoi vederla già stasera, perché là sono rigidi, è facile che chiudano un minuto prima piuttosto che un minuto dopo”. È una rivalità antica, che affonda le sue radici nel Cinquecento, quando i parrocchiani di San Pietro decidono arbitrariamente di murare sulla loro chiesa una lapide che recita “Mater Ecclesiae”, una rivalità che pare durare anche adesso. A Modica il barocco appare diverso che in altre città della Sicilia sudorientale, qui il terremoto del 1693 ha fatto meno danni, e la ricostruzione si innesta sul preesistente tessuto trecentesco: l’effetto di quinta teatrale è mitigato anche dai successivi sviluppi urbani ottocenteschi, in una città che non si è fermata alla contemplazione di sé. Dove invece il tempo si è fermato, a Modica, è nel metodo e nella produzione del cioccolato. Dalla scalinata di San Pietro scendo su corso Umberto I. Qui di fronte, all’Antica Dolceria Bonajuto, mi attende Pierpaolo Ruta, discendente di sesta generazione di quel Francesco Ignazio Bonajuto citato in un documento del 1854 con il suo fattojo del ciccolatte. Non molto è cambiato da allora all’Antica Dolceria, con la lavorazione delle fave preferita a quella della massa di cacao, eseguita sempre a bassa temperatura, inferiore ai 45°, nel massimo rispetto della materia prima e dei suoi aromi. La caratteristica texture granulosa è data dallo zucchero non raffinato e aggiunto solamente alla fine della lavorazione, senza che la temperatura possa farlo sciogliere. È un cioccolato dal sapore antico, di quando esisteva ancora la figura del cioccolataio ambulante, e non c’era nonna che non lo producesse in casa. Un prodotto lontanissimo dall’essere d’élite, energetico motore per contadini e braccianti. Oggi, racconta Pierpaolo Ruta, siccome la tradizione non è altro che un esperimento ben riuscito, alle storiche tavolette alla vaniglia e alla cannella si affiancano prodotti nuovi che omaggiano la terra di Sicilia e la storia di famiglia: è così che nascono tra gli altri il cioccolato al mandarino, al limone, allo zenzero, al cardamomo e alla maggiorana, ricordo di quando il nonno tornava a casa e profumava di cioccolato mentre la nonna impastava i ravioli con ricotta e maggiorana.

È ora di partire per Ragusa, ma non prima di aver fatto scorta di ‘mpanatigghi, battezzati da Leonardo Sciascia “il biscotto da viaggio”, antichissima ricetta che coniuga cioccolato e carne di manzo.

 



Ragusa Ibla, Palazzo Castro e il Duomo di San Giorgio

 

Ragusa un tempo era solamente Ibla. Piccola, raccolta, labirintica. Anche qui tutto è stato sconvolto dal sisma del 1693. Sull’adiacente collina del Patro prende forma la nuova città, mentre Ibla viene ricostruita mantenendo il suo assetto precedente, la sua impronta medievale fatta di vicoli e scale. In entrambi i casi è ovviamente il barocco il grande protagonista architettonico della rinascita, ma con effetti completamente diversi: la parte nuova, voluta dai Sangiovannariattorno alla cattedrale di San Giovanni segue i canoni urbanistici dell’epoca, gli spazi si allargano alla ricerca di un ordine anche e soprattutto visivo, mentre Ibla mantiene il suo fascino arabo, pare quasi che lo sguardo degli architetti sia comunque rivolto a oriente, come nel caso della grande cupola di San Giorgio, magistralmente barocca eppure quasi ortodossa. È la magia di questo lembo di Sicilia, da sempre parte di mondi diversi e di storie diverse. E, a proposito di storie, come non ricordare i circoli di conversazione, in particolare quello di piazza Duomo, conosciuto anche come Caffè dei Cavalieri: in questo edificio neoclassico, costruito nel 1850, l’azzurro e l’ocra della facciata si perdono ancora oggi sull’indaco del cielo, e il profumo è sempre quello del Gattopardo e dei Vicerè. All’interno, un documento ricorda i fondatori e i loro cognomi appartenenti alla nobiltà siciliana dell’epoca, tra i quali il barone Francesco Arezzo di Donnafugata, il cavaliere Giuseppe Arezzi, il barone Carmelo Arezzo di Trefiletti. Nelle sue sontuose sale e nel suo giardino fuori dal tempo si consuma il rito della storia raccontata, della narrazione rarefatta, si gioca a carte e si legge il giornale. Poi, certo, il mondo è andato avanti, e una bella partita vista in tv non si disdegna nemmeno qui…

 



Palazzolo Acreide, il Teatro Greco dell’antica Akrai

 

Palazzolo Acreide può ben rappresentare l’alfa e l’omega di questo viaggio. Il suo teatro greco, immobile e solitario al centro dell’antica Akrai, mi riporta al III secolo a.C., a una cultura e a una storia antichissima, riannodando quel filo che mai davvero si è spezzato nel corso dei secoli. Qui, in pochi minuti, battendo ancora l’antica pavimentazione in pietra lavica, passi dalle antiche architetture rupestri al Teatro, dai Templi Ferali ai resti delle settecentesche niviere, i pozzi profondi nei quali, sino all'800 inoltrato, veniva stivata e conservata la neve che poi, trasportata a dorso di mulo nelle città e nei centri costieri, sarebbe servita nel periodo estivo per la produzione di sorbetti e gelati. 

Palazzolo non fa eccezione, e anche qui, come tra il San Giorgio e il San Pietro di Modica, come tra il San Giorgio e il San Giovanni di Ragusa Ibla, non può mancare la competizione tra santi. Le squadre sono quelle di sampaulisi e sammastianisi, i devoti di San Paolo e San Sebastiano. Le due feste sono divise da poche settimane, 28 giugno e 10 agosto, e vale davvero la pena di assistere alla sciuta, l’uscita del Santo dalla chiesa, con fuochi d’artificio, mortaretti e migliaia di strisce di carta multicolori, gli ‘nzareddi, sparate al cielo. La Palazzolo Acreide barocca si dipana tra Piazza Acre, Corso Vittorio Emanuele e via Carlo Alberto tra quinte architettoniche opulente fino a Piazza del Popolo, davanti alla scalinata di San Sebastiano. Fermatevi qui, più di un attimo, per un caffè o una birra. Ai tavoli a fianco noterete occhi azzurri o scurissimi e incarnati che seguono tutte le gradazioni, a ricordare lo straordinario patrimonio storico e culturale di questo angolo d’Italia, che è più di un angolo di mondo.

 

[testi e fotografie © GianlucaBaronchelli / TRAVELER National Geographic – 2020]

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